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I sistemi elettorali italiani. Una prospettiva storica di ingegneria elettorale
All’indomani dell’Unità d’Italia (marzo 1861) il voto era riservato solo ai cittadini maschi, purché avessero un’elevata condizione sociale (un sistema censitario dunque che prevedeva l’iscrizione nelle liste solo di coloro che avessero pagato almeno 40 lire di tasse annue, il censo elettorale), sapessero leggere e scrivere, e avessero compiuto 25 anni. In un Paese povero e agricolo come era l’Italia dell’epoca meno del 2% della popolazione era in grado di soddisfare tali requisiti (per la precisione l’1,7%). Queste previsioni erano contenute nella legge elettorale del Regno di Sardegna del 1859 che divenne la prima legge elettorale del Regno d’Italia dopo l’unificazione: essa prevedeva un sistema maggioritario a doppio turno, ossia il ballottaggio tra i due candidati più votati nel corso della prima tornata. Si ricordi che nella monarchia costituzionale delineata dallo Statuto Albertino (promulgato da Carlo Alberto di Savoia nel 1848 e poi esteso al Regno d’Italia dopo l’Unità) il Parlamento aveva una struttura bicamerale, ma gli elettori esprimevano il loro suffragio solo per i 443 seggi della Camera dei deputati, poiché il Senato del Regno era interamente di nomina regia, e la carica era vitalizia.