{"title":"In ricordo di Massimo Campanini","authors":"R. Tottoli","doi":"10.1163/22138617-12340252","DOIUrl":null,"url":null,"abstract":"Con Massimo ci siamo conosciuti veramente solo quando venne a Napoli per il concorso da Ricercatore (2005) e negli anni passati all’Orientale (2005-2011). Occasione per frequentarci nei primi mesi furono le volte che rimase a dormire da me e mia moglie Francesca in una casa in cui ci si riuniva settimanalmente per lunghe cene con i colleghi. Ci si trovava con il compianto Giovanni D’Erme, ma anche con Claudio Lo Jacono, Michele Bernardini, Alberto Ventura, Giovanni Canova, Natalia Tornesello e tanti altri che si alternavano con la scusa di un corso di rilegatura che finiva però in lunghe chiacchierate. Massimo era contento di essersi finalmente unito a noi e aveva sempre un sorriso partecipe al clima che si era creato in quegli anni. Era arrivato a Napoli con le sue pubblicazioni, le sue competenze e con l’inconfondibile spirito fattivo. Il suo più grande contributo a quelle serate, e che ancora ricordiamo tra noi, fu una volta quando, a freddo, attorno alla tavola tonda e una montagna di pasta e vongole, chiese serafico se era vero che, come qualcuno gli diceva, aveva perso completamente il suo accento milanese. Lo disse, manco a dirlo, con il suo inconfondibile accento: qualcuno scoppiò a ridere, altri finsero di girarsi a prendere qualcosa per trattenersi e si andò avanti un paio di ore tra paradossi e risate che tirarono inevitabilmente dentro anche me e la mia calata bresciana, che vent’anni da napoletano hanno attenuato ben poco. Non racconto questo per spirito di puro aneddoto, anche se sicuramente indurrà una risata da lassù lo stesso Massimo, ma per sottolineare una sua grande dote in un momento che era delicato e significativo per lui e per l’Accademia italiana. Quel suo posto di ricercatore universitario rendeva giustizia a una carriera non facile, ricca di pubblicazioni e competenze svariate, ma infranta contro concorsi in precedenza andati male, occasioni mancate e viaggi faticosi su e giù per l’Italia per contratti di insegnamento nelle varie discipline che sapeva insegnare con quel carisma che generazioni di studenti gli hanno sempre riconosciuto. A cinquant’anni compiuti Massimo poteva finalmente approdare in forma stabile nei ranghi dell’Università italiana e lo faceva con lo spirito ragazzino di chi vuole parlare, sorridere con gli altri e","PeriodicalId":35837,"journal":{"name":"Oriente Moderno","volume":" ","pages":""},"PeriodicalIF":0.0000,"publicationDate":"2021-10-06","publicationTypes":"Journal Article","fieldsOfStudy":null,"isOpenAccess":false,"openAccessPdf":"","citationCount":"0","resultStr":null,"platform":"Semanticscholar","paperid":null,"PeriodicalName":"Oriente Moderno","FirstCategoryId":"1085","ListUrlMain":"https://doi.org/10.1163/22138617-12340252","RegionNum":0,"RegionCategory":null,"ArticlePicture":[],"TitleCN":null,"AbstractTextCN":null,"PMCID":null,"EPubDate":"","PubModel":"","JCR":"Q1","JCRName":"Arts and Humanities","Score":null,"Total":0}
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Abstract
Con Massimo ci siamo conosciuti veramente solo quando venne a Napoli per il concorso da Ricercatore (2005) e negli anni passati all’Orientale (2005-2011). Occasione per frequentarci nei primi mesi furono le volte che rimase a dormire da me e mia moglie Francesca in una casa in cui ci si riuniva settimanalmente per lunghe cene con i colleghi. Ci si trovava con il compianto Giovanni D’Erme, ma anche con Claudio Lo Jacono, Michele Bernardini, Alberto Ventura, Giovanni Canova, Natalia Tornesello e tanti altri che si alternavano con la scusa di un corso di rilegatura che finiva però in lunghe chiacchierate. Massimo era contento di essersi finalmente unito a noi e aveva sempre un sorriso partecipe al clima che si era creato in quegli anni. Era arrivato a Napoli con le sue pubblicazioni, le sue competenze e con l’inconfondibile spirito fattivo. Il suo più grande contributo a quelle serate, e che ancora ricordiamo tra noi, fu una volta quando, a freddo, attorno alla tavola tonda e una montagna di pasta e vongole, chiese serafico se era vero che, come qualcuno gli diceva, aveva perso completamente il suo accento milanese. Lo disse, manco a dirlo, con il suo inconfondibile accento: qualcuno scoppiò a ridere, altri finsero di girarsi a prendere qualcosa per trattenersi e si andò avanti un paio di ore tra paradossi e risate che tirarono inevitabilmente dentro anche me e la mia calata bresciana, che vent’anni da napoletano hanno attenuato ben poco. Non racconto questo per spirito di puro aneddoto, anche se sicuramente indurrà una risata da lassù lo stesso Massimo, ma per sottolineare una sua grande dote in un momento che era delicato e significativo per lui e per l’Accademia italiana. Quel suo posto di ricercatore universitario rendeva giustizia a una carriera non facile, ricca di pubblicazioni e competenze svariate, ma infranta contro concorsi in precedenza andati male, occasioni mancate e viaggi faticosi su e giù per l’Italia per contratti di insegnamento nelle varie discipline che sapeva insegnare con quel carisma che generazioni di studenti gli hanno sempre riconosciuto. A cinquant’anni compiuti Massimo poteva finalmente approdare in forma stabile nei ranghi dell’Università italiana e lo faceva con lo spirito ragazzino di chi vuole parlare, sorridere con gli altri e